CUM NE PREGATIN NOI DE REFERENDUM???

CUM NE PREGATIN NOI DE REFERENDUM???
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mercoledì 29 giugno 2011

In libreria “A Est del Nordest. In spider alla conquista della Romania e altri racconti”.

Tremila chilometri per varcare il Danubio e “conquistare” il Far East. Il racconto di viaggio di Maurizio Crema in Romania, Moldavia e Transnistria partendo da Venezia e passando dai Balcani. Un progetto che diventerà anche un documentario. Ecco un'anticipazione del capitolo sulla Transnistria e un video

A Est del Nordest è un libro di viaggi ma anche di scoperte, un’esplorazione nel Far Est d’Europa, dove i confini si confondono e anche la Storia si perde un po’, come in Transnistria,il paese non riconosciuto da nessun’altra nazione che vive cristallizzata ai tempi del Soviet, dell’Urss, del comunismo. In una Tortuga dove s’intracciano traffici legali e illegali. L’ossatura del libro, il racconto più lungo, è un viaggio con una vecchia spider vent’anni dopo la caduta del Muro, da Venezia fino alla Romania. A Est del Nordest, appunto.

Una cavalcata matta e un po’ disperata lunga 1500 chilometri con tanti fantasmi: la badante, la prostituta, l’operaio della Zastava, l’imprenditore del Nordest, il trafficante di case e donne, i contadini arricchiti col boom immobiliare (che finisce con un matrimonio zingaro e una notte magica che poteva trasformarsi in un incubo quando tre ragazzine hanno iniziato a danzarmi intorno). E scatta la paura, del diverso, dello straniero, del buio di Craiova, città oscura, poca luce e pochi lampioni. Che fare? Scappare, per le avventure c’è sempre tempo. Ma non e stata una sconfitta. Primo, perché sono tornato vivo e poi perche sono iniziati altri viaggi. Quelli raccontati nella seconda parte del libro, un po reportage e un po cartoline di un Est che e anche lo specchio del Nordest e dell’Italia di questi ultimi vent’anni: berlusconiana e arraffona.

Si narra dei monasteri affrescati della Bucovina, in Romania, dei castelli di Dracula (quello vero e quelli falsi tipo balcone di Giulietta) e dela cantina sotterraneee di Chisinau o del Barone degli zingari Moldavi che vive a Soroca, oppure di Bucarest, capitale rilucidata di un paese che non si sa ancora come abbia fatto a entrare in Europa.



Il Paese che non c’è
[Transnistria] La Bessarabia (Besarabya in turco) è una regione compresa tra i fiumi Prut (affluente di sinistra del Danubio nel suo corso infe­riore) e il Nistro: attualmente è suddivisa tra la Moldova (parte settentrionale, dopo la disfatta dei Mongoli del 1343 fu annessa al principato di Moldova) e l’Ucraina (parte meridionale o “Bessarabia storica”, o Budjak “Bessarabia Vecchia”, Bugeac in rumeno, Bugiac in lingua tartara e Bugiak in turco).

Già questo incrocio di lingue fa capire come da queste parti sia passato di tutto e non sia ancora finito. È rimasto sospeso, aleggia come un fantasma tra la pianura di campi coltivati e filari di alberi che si allungano a distesa fino al confine che non c’è. Pensi di trovarti davanti a un qualche punto geografico, un monte, un fiume, un cocuzzolo, e invece l’autostrada rattoppata finisce in un posto di blocco sorvegliato da soldati dove il primo comandamento dei cartelli è non fotografare né filmare. D’altra parte, come si può registrare un posto che non esiste? Sono passati una cinquantina di chilometri da Chişinău, ne mancheranno duecento a Kiev, ma ora mi ritrovo a fare i conti con un paradosso. «Non credo che vi sia bisogno di visto per entrare in Transnistria, ma tu portati dietro il passaporto e in ogni caso spera, non è detto che ti permetteranno di passare. Non esiste un criterio, c’è gente che conosco che entra e rientra, altri italiani che sono rimasti bloccati per ore senza speranza. Tu prova».

L’amico imprenditore italiano non è del Sud ma lavorando da queste parti da anni era diventato un fatalista convinto. E anche i suoi colleghi o la gente che ho conosciuto, rumeni e moldavi, ha lo stesso approccio. Il confine del Nistro è ancora un rebus e non solo perché formalmente quel Paese non è riconosciuto da nessuno, nemmeno dai russi che l’hanno creato quando nel 1992 l’armata del generale Lebed si schierò con i secessionisti dell’autoproclamata Repubblica di Transnistria, e passò il fiume che scimmiotta l’Istro occupando Thighina (o Bender per i russi), la città che si profila in fondo all’autostrada, dopo i fili spinati di questa frontiera che ufficialmente non esiste. Vi furono scontri, una vera battaglia, morti e feriti. Da allora la situazione è congelata, e prosperano i traffici.

Sono nervoso e lo è anche la mia guida. Lui è moldavo ma mostra alle guardie transnistrie (evocativo, eh?) un passaporto rumeno, cioè europeo. Bene, proprio un bel pasticcio. Prima di arrivare mi ha detto di nascondere macchina fotografica e telecamera, io mi sono infilato nelle mutande la memoria di tutte le mie preziose foto e ho distribuito le cassette sotto il tappetino e gli apparecchi tra le varie tasche di quel canguro d’auto che mi ritrovo. Passiamo una prima frontiera, mi si spiega che è quella moldava, ah! Poi la terra di nessuno di un chilometro tra sterpaglie e fili spinati, un’autoblindo russa, sacchetti di sabbia e pennoni a sventolare bandiere col montone. E arriva un altro stop. Spunta il cirillico. Questa è la Transnistria, Pridnestrovie in russo, mi spiega il mio Virgilio guardia del corpo autista e chissà che altro. Il poliziotto che ci scruta ha il colbacchetto nero e la divisa caki, mostrine lucenti e un bel pistolone alla cintura. Un altro passa in rassegna l’auto, batte con uno sfollagente sulla carrozzeria, si fa aprire il cofano dietro, controlla dentro e poi fa richiudere. Aprono le portiere dietro, io sudo freddo, non mi va proprio di finire in galera in un posto come questo dove l’unico soggetto riconosciuto dal mondo è la squadra di Tiraspol (città del Tyras, l’antico nome latino per Nistro), lo Sheriff, punta di un iceberg che nella parte sommersa controlla un gruppo che conta supermercati, distributori, fabbriche, televisioni, giornali, distillerie, agenzie pubblicitarie, società di costruzioni (o mamma mia, mi sembra di essere in Italia!). In pratica metà della ricchezza di questo Paese è nelle tasche di un paio di agenti segreti e del figlio del capo Oleg Smirnov. Le guardie di frontiera ci fanno cenno di accostare, parcheggiamo davanti a un prefabbricato basso e lungo dove si assiepano in altri cinquanta, donne, bambini, uomini. Tutto è scritto in cirillico, siamo già in Russia. Guardo in giro, controllo con la coda dell’occhio cosa accade all’auto, nessuno se la fila. E io mi metto in fila. C’è da compilare un foglietto con tutto quello che sono, nascita, residenza, lavoro (turista, meglio non fare i giornalisti da certe parti, o in tutte?!). Una donna dai capelli scarmigliati e rossi, gli occhi verdi e la pelle con le lentiggini, sgomita e si piazza davanti al gabbiotto mitragliando in russo la poliziotta dall’altra parte del vetro. Ride alle battute degli uomini intorno, alza un figlio di tre anni e tiene sotto controllo l’altro, capisco che vuole andare a Kiev e arriva da chissà dove. Io cerco di scambiare qualche parola con gli altri della coda, l’inglese non è diffuso ma intuisco che molti stiano andando in Ucraina per poi finire in Russia dove c’è ancora lavoro ed è più facile trovare un posto rispetto alla dura Europa che fa un sacco di storie, che quella è una porta dove transitano spesso in un’emigrazione insistita che si porta dietro chissà cos’altro. Poi è il mio turno e sorrido, il mio solito sorriso beota da ufficioso a ufficiale. La poliziotta, capelli neri e occhi azzurri, mi guarda distratta e timbra. Il mio fascino non ha fatto molto presa, ma almeno se l’è bevuta che ero solo un turista. D’altra parte il problema non è entrare, mi fa subito dopo il mio compagno di viaggio, ma uscire. Ah, grazie!



Comunque il timbro prezioso ce l’ho, non è da tutti finire in un posto che non c’è (ufficialmente). Anche se nel mondo non sono poi così rari, mi viene in mente subito la Cipro Nord turca, stessa bandiera con la mezzaluna di Ankara ma in campo bianco. E lì, a Nicosia, c’è anche l’ultimo Muro d’Europa, ma questa è un’altra storia che c’entra molto con Venezia, oh yeah. Mettiamo in moto, il documento funziona, ci alzano la sbarra fatidica. Siamo dentro. L’autostrada si snoda ancora fra campi piatti e filari di alberi, poi entriamo in una città moderna e spettrale, qualche tram, pochissime auto, una ruota di luna park grandiosamente arrugginita e i resti di una fortezza che ora è base militare sul Nistro. Il fiume arriva d’improvviso, dopo una rotonda affollata di vecchie auto, si allunga pigro e marrone verso il Mar Nero, riflette la luce del sole e mi abbaglia mentre giriamo attorno e finiamo quasi dritti contro un carro armato, dei soldati lo sorvegliano e guardano distratti la strada, un flash e sono già dietro, mi giro, sono russi. Passiamo in mezzo a uno slalom di barriere di cemento, dall’alto di una torretta spuntano altri soldati armati, e poi siamo sul viadotto che oltrepassa il fiume sacro alla santa madre Russia e allo zar che conquistò questo posto nel 1812 e da allora se lo tiene ben stretto anche se è caduto insieme al comunismo. Ora comanda per interposta persona la Repubblica di Putin, come in Abkhazia e in Ossezia. Mah! Getto un altro sguardo a Tighina, lì la maggioranza della popolazione era moldava, ma ora sono quasi tutti scappati dall’altra parte e la pulizia etnica, anzi, la semplificazione etnica, è stata completata. Di qui, in Transnistria, meno di 500.000 russofoni, di là tre milioni di moldavi. Il resto sono emigrati. Bah! Mi concentro di nuovo sulla strada, la città ha già lasciato posto alla solita campagna piatta, poi spunta una costruzione moderna, nuova di zecca, scopro che è lo stadio dello Sheriff, la squadra del signore e padrone di questo staterello che gioca anche la Champions. Assurdità nell’assurdità. Ma il massimo lo raggiungiamo quando entriamo a Tiraspol, la capitale, e dopo il palazzo monumentale del governo e la statua di Lenin con suo crapone pelato che non riluce più neppure a Mosca. Passiamo davanti a un palazzo dove campeggia la scritta Venezia. Venezia! Ma dai, anche qui, in pieno comunismo irreale… dai gira, che voglio fare una foto, dico al mio Virgilio. E lui esegue: inversione a U proprio davanti all’entrata della base russa. Bravo, perfetto, l’ideale per farsi ben volere dalle truppe occupanti che stanno qui da quasi vent’anni. Ormai sono praticamente maggiorenni, già, bella manovra. L’ho voluta io, sì… ma già siamo fuorilegge o al limite e tu ti metti anche a fare il rodeo drive, ma pensa te.

Comunque al primo incrocio rigiriamo, ripassiamo davanti alla base e finalmente arriviamo al centro di questa capitale che non esiste. Parcheggiamo. Il mio Virgilio s’infila in un palazzo squadrato e io mi immergo in questo altro mondo: avete presente il film Ritorno al futuro, quello dello scienziato pazzoide che inventa l’auto per viaggiare nel tempo? Bene, io ero stato catapultato nel passato, negli anni Settanta, nel comunismo sovietico: ragazze con stivaletto di plastica dai colori acidi e gonne smorte su uno sguardo fiero e slavo e truccatissimo. Vetrine con le tendine che un tempo erano bianche e ora assolutamente grigie sormontate da astruse parole in cirillico gialle o rosse dove spuntano in esposizione tre oggetti, tipo uno shampoo, due tinture per capelli, una parrucca. Negozi dove sfila su rastrelliere da caserma un campionario dell’essenzialità, completi di poliestere, maglioni infeltriti, scarpe da ginnastica simil Adidas e da passeggio che se non hai i calli devi essere un fachiro per indossarle. Come Doc finiva a fare il pistolero in Texas io temevo di dover fare il membro del PCI in trasferta nel Paradiso socialista, cercavo di mimetizzarmi ma tutto di me era fuori luogo e, soprattutto, fuori tempo. Proprio come nel film di Zemeckis. Poi scopro che il supermercato è dello Sheriff, che la simil boutique è dello Sheriff, che anche la panetteria all’angolo è dello Sheriff, ma anche la banca, la stazione di servizio, la cattedrale, lo stadio. Non è un fondale di un film, questi vivono in un Grande Fratello. Tutto è del grande capo, del Leader, che ha costruito un mondo su misura per sé e i suoi affari a colpi di leggi ad personam e di monopoli. Tutto quello che è importato nel Paese che non c’è passa da una delle sue società, dal petrolio ai profumi, dalle scarpe alle auto. E quello che le fabbriche producono per l’estero, anche quelle degli italiani che lavorano qui, sotto discretissime coperture, passano da sue controllate. Sto camminando in un Matrix che è reale e nello stesso tempo irreale, una Rete i cui gangli finiscono sempre e comunque lassù, da Igor Smirnov. La sensazione di essere spiato e controllato diventa forte, dilagante, ti guardi in giro, mi aspetto da un momento all’altro di essere rapito, di scomparire nel nulla perché nessuno qui mi conosce e io sono in un posto che non esiste, precipitato in una finzione in un altro tempo e spazio. Forse devo smetterla di viaggiare, meglio starsene a casa, tranquillo, caminetto, cane e pipa. Questa è l’ultima volta che mi infilo in casini di questo tipo, giuro! Per fortuna la mia guida mi ripesca mentre mi sono messo schiena al muro in un posto riparato, schivo, grigio, insomma, una nullità. Dai vieni, andiamo – mi fa – ti porto al fiume e dopo andiamo alla Kvint, alla distilleria dove fanno il famoso cognac. Di chi è la distilleria? Fate un nome, uno a caso? No, no, basta è un’ossessione, l’unica fortuna è che il Grande Capo non compare mai, in tv o nei cartelloni, altrimenti mi sembrerebbe proprio di essere in un altro posto e in un altro tempo. O solo nel mio?
Nostalgia canaglia

I fiori stanno distesi davanti al gigante di granito rosso che guarda il sol dell’avvenire con cipiglio fiero. Un gruppo di vecchietti, le facce abbronzate e solcate da rughe con medaglie dell’Armata Rossa e spille CCCP orgogliosamente al bavero, parlotta tranquillo all’ombra della statua di Lenin che troneggia nella grande piazza del Soviet Supremo della Pridnestrovskaia Moldavskaia Respublica (Pridnestrovie in breve, in cirillico scriverlo è un’impresa), l’ultima repubblica socialista sovietica sopravvissuta al naufragio dell’URSS. In alto, sulla sommità del palazzo in stile classicocomunista svetta ancora la falce e il martello incorniciati da spighe e uva e sormontati da una stella rossa. Tutto come allora, vent’anni fa, quando cadde l’Unione e scoppiò la guerra civile tra moldavi e russi, tra cirillico e latino, tra voglia d’Europa e nostalgia del sistema che resse questo sterminato Paese per settant’anni fino all’arrivo di Gorby. Duemila e passa morti e una dittatura dell’ex capo del KGB Igor Smirnov dopo quei ragazzi classe 1945 stanno a festeggiare il faro della Rivoluzione d’ottobre, l’ideologo e la scintilla di quel movimento che voleva cambiare il mondo e ha lasciato solo ricordi e miserie. Sorridono quando io e il mio compare filmico Enrico chiediamo notizie, storie, informazioni provando tutte le lingue che conosciamo, compreso il dialetto veneto, senza avere l’unica che ci permetterebbe di dialogare con loro: il russo. Sono un po’ timorosi, chi siamo, da dove veniamo – «Italianiskj, eh!» – ma non ci credono, non capiscono come possano arrivare fin lì – a Tiraspol, nella capitale dello stato che non è riconosciuto da nessuno tranne che da pezzi di Abkhazia e Ossezia – dei turisti. Turisti di che? Del tempo che fu? Però si avvicinano, cercano di parlarci, i sorrisi bambini mentre vogliono spiegarci che festeggiano – scopriremo giorni dopo che il 22 aprile è l’anniversario della nascita di Vladimir Il’ic Ul’janov, il compagno col pizzetto e lo sguardo fisso – come vivono, cosa sognano ancora quegli occhi un po’ umidi che guardano a un passato che non esiste più eppure vive ancora in loro e in quel monumento alto otto-dieci metri. La testa pelata del grande rivoluzionario rifulge al sole di questa Pasqua imminente, i baffoni e il mento aguzzo fendono l’aria, l’orizzonte, il braccio sta teso e chiuso in un pugno serrato mentre sembra che si protenda, come se il gigante stesse per parlare, per lanciare un comizio dei suoi, per infervorarsi nella grande illusione comunista. Quello che spicca in questa statua, una delle ultime rimaste di Lenin sulla faccia della terra, è la coda che sfugge alla sua sinistra: il suo cappotto stilizzato si confonde in un’ala di granito, pronto a portare in volo lui e le sue parole come in un quadro di Chagall. Non gli bastano i tulipani rossi come omaggio, il vecchio condottiero vorrebbe di più, forse risorgere per lanciare una nuova sfida al capitalismo. Ma quello è un miracolo riservato solo agli dèi, a Gesù. Lui era solo un uomo che morì presto, nel 1924, e non vide i disastri che aveva contribuito a partorire come questo stato ai confini dell’Europa, una lingua di terra delimitata dal fiume Nistro grande poco più della Valle d’Aosta e meno della Liguria dove vivono in mezzo milione senza un passaporto valido per il resto del mondo (devono usarne altri, ucraini, russi, moldavi) e con una moneta, il rublo, seppellita dalla storia ma non dai maneggi del Grande Fratello che tutto comanda qui.

«I grandi magazzini Sheriff? Le pompe di benzina? La concessionaria Mercedes? La fabbrica tessile? L’acciaieria, i cementifici? Ristoranti, discoteche, perfino la squadra di calcio, tutto è suo. Senza il suo sì qui non puoi far niente, per questo tutto è ordinato, in regola. Qui la corruzione non esiste». In compenso potrebbero furoreggiare traffici di armi, droga, donne, organi, adozioni illegali. Ma lui fa spallucce, non ci crede: «Tutta propaganda negativa, come i servizi delle Iene in tv, girati in Moldova». Sergio Luciano è un italiano del Sud sulla quarantina che con Lenin ha in comune una bella pelata e che tre anni fa ha deciso di trasferirsi a vivere a Tiraspol dopo aver bazzicato per anni in Moldova, a Chişinău. Ebreo osservante, scorrazza tra Ucraina, Transnistria e chissà quanti altri posti di quest’Europa di confine a caccia di affari (lavora nel campo dell’abbigliamento, c’entra con la produzione a Tiraspol della Moncler, ma non solo) e anche di fidanzate: «Ne ho un paio a Chişinău, una a Tiraspol, un’altra a Odessa», dice questo maschio italiano vero accarezzandosi la pancia accentuata. «Qui hai davanti a te solo tre risposte se vuoi fare affari: no, sì, e partecipo anch’io» spiega infervorato. «Perché qui sono pronti a metterci i soldi se credono nel progetto, non come in Moldova che ti dicono investi e poi cercano di fregarti l’affare o di prosciugarti con bustarelle varie. È semplice: se a lui [cioè a Smirnov, n.d.A.] vai bene entri, altrimenti sei out. E ora vuole aprirsi al mondo, vuole che arrivino gli investitori dall’estero, anche dall’Italia».

Per questo ci ha portato a visitare una vecchia fabbrica di carri armati poi diventata di camion e oggi di semoventi per granaglie: la Dhecmp Aemo (tradotto dal cirillico), Dnestrauto. Un posto cadente che lui magnifica: «Vedi è tutto pulito, ti sfido a trovare una carta per terra, olio e ruggine sono banditi». Effettivamente tranne nell’ultima ala della fabbrica, dove i vetri rotti ci sono, il resto sembra in ordine. In ordine e anche in gran parte vuoto. «Vent’anni fa lavoravano duemila persone, ora siamo rimasti in duecento», spiega Petr Kirilovich, vice direttore della fabbrica, un bulgaro di qui (c’è anche questa minoranza in questo lenzuolo di Stato incuneato tra Ucraina e Moldova). E i macchinari come le strutture, gli uffici, i bassorilievi, tutto sembra essersi fermato al 1991, quando ancora c’era l’URSS caro lei, tranne il castello di Bender, la città dall’altra parte del Nistro che i moldavi chiamo Tighina e i russi hanno conquistato dopo una battaglia nel 1991. Le sue torri spuntano dalle grandi vetrate della fabbrica che confina assurdamente con questa fortezza fondata nel XV secolo da Ştefan cel Mare, fatta possente da Solimano il Magnifico alla metà del secolo dopo e conquistata dai russi alla fine del XVIII secolo grazie anche al barone di Münchausen, che qui si sparò sulla palla di cannone per far vincere le truppe del principe Potemkin, anzi del Serenissimo Principe Potemkin Tavriceskij (cioè di Tauria-Crimea), sposo segreto della zarina Caterina II. All’inizio di quel secolo anche gli svedesi spiaggiarono da queste parti, cercando di battere i russi dello zar e finendo per perderci il loro re Carlo XII.

Smirnov è orgoglioso di tutte queste storie e ha deciso di far sgombrare i militari da quella che è ancora per metà una loro base per iniziare restauri faraonici alle lunghe mura e alle otto torri superstiti, finanziando anche la creazione di un museo e l’erezione di busti e statue a tutti i grandi generali. E il barone s’è conquistato un suo angolo nel sacrario del Grande Capo, compreso di busto e lapidi che spiegano le sue gesta di allucinato soldato finito sulla luna e non solo. Ma i resti delle migliaia di soldati che perirono qui per difendere o conquistare questo avamposto strategico per commerci e domini (alla foce del Nistro, settanta chilometri da qui, sorge il castello di Moncastro o Maurocastro, ex colonia di Venezia sul Mar Nero) sono stati piazzati all’inizio della città, in un sacrario con tombe di tante guerre, anche dell’ultima che produsse 486 “martiri”, almeno stando alla fanfara del regime. Civili e soldati che combatterono ex fratelli comunisti riuscendo a scamparla grazie a fratelli russi, quella XIV armata che oggi sembra essere stata in gran parte sgomberata, ne rimangono solo cinquecento di soldatini.

Chissà che questi vecchietti timidi sotto il testone di Lenin non fossero dei suoi vent’anni fa. Abbiamo cercato di scoprirlo con domande e gesti finendo per essere quasi arrestati dagli agenti di guardia al Soviet Transnistro. Per fortuna eravamo stati ben indottrinati: «Rispondete sempre che siete turisti», ci aveva detto Luciano. E noi lo ripetemmo a tutti quelli che ce lo chiesero, anche al baffone che doveva decidere della nostra sorte: guardina o libertà? Decise che eravamo troppo stupidi, lì, sotto Lenin e il sole con macchina fotografica e videocamera, per essere veramente pericolosi. Meglio così. E il traffico d’armi descritto in un servizio delle Iene? «Perché dovrebbe sporcarsi le mani Lui con quegli affari? Controlla già metà del PIL della Pridnestrovie, ha un patrimonio personale stimato in tre o quattro miliardi di dollari (l’altra valuta che conta da queste parti), volete che si sporchi le mani con queste inezie? La verità è che a tutti, Moldova, Ucraina, Russia, Europa, fa comodo che Lui comandi e che questo Stato esista, perché qui la gente vive, studia, fa figli, affari, quindi a differenza di quello che pensano tutti, la Transnistria c’è». E combatte insieme a Lui con le sue ragazze dal tacco dodici anche per comprare il pesce dai camion cisterna. Ma hai voglia a mostrarti altera e sculettante tra vecchie auto zigulì e nuovi suv neri. Questo posto sospeso nel limbo dell’ultimo Soviet rimane una gabbia grigia sull’orlo del disfacimento, con i ragazzi costretti a pascolare le pecore in periferia in mezzo a un ex bunker sovietico e alla sporcizia, le fabbriche che stanno in piedi per miracolo e gli imprenditori come Vyacheslav Driglov che non vede l’ora di trovare sponde occidentali per far decollare la sua software house, e i sindaci di campagna che devono implorare i preti italiani come il padovano don Sergio di creare strutture sociali, oratori, mense, ospedali nei loro paesi perché il Grande Fratello pensa ad altro. Forse invidia il barone di Münchausen e vorrebbe finire in orbita con una Soyuz come hanno già fatto altri ricconi prima di lui.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/29/in-libreria-a-est-del-nordest-in-spider-alla-conquista-della-romania-e-altri-racconti/131290/

http://www.youtube.com/watch?v=aULJ15mJ6fs&feature=player_embedded

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